sabato, aprile 29, 2006

Quel che bisogna sapere dell'Iran


Il direttore generale dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) Mohamed ElBaradei ha consegnato ieri il suo rapporto sulla questione nucleare iraniana. Vi si accusa il regime di Teheran di non aver fermato le operazioni di arricchimento dell'uranio, che potrebbero preludere allo sviluppo di armi nucleari da parte iraniana. Questa evoluzione rafforza la posizione degli Stati Uniti, che chiedono una risoluzione da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Uniti in cui non s'escluda l'uso della forza contro l'Iran, e mette in imbarazzo Russia e Cina, che invece sono per una posizione dialogante rispetto a Teheran. Tanto che oggi il ministro degli Esteri Sergei Lavrov oggi è intervenuto con decisione sull'Iran per chiedere l'immediata interruzione di queste attività.

Teheran, dal canto suo, nicchia. Continua ad affermare che il suo programma nucleare è solo a uso civile, ma nello stesso tempo utilizza formule bellicose per lasciare sfumatamente intendere che in realtà il suo scopo è proprio quello di dotarsi dell'atomica. Una tattica, potremmo dire, nordcoreana. Che però non tiene conto del fatto che, rispetto alla Corea del Nord, l'Iran è strategicamente molto più rilevante e inserita in una regione molto meno "coperta" da una potenza come la Cina. Sembra che Mahmoud Ahmadinejad e i suoi non si rendano conto che Washington fa sul serio.

La strategia iraniana è irritante. Ma nello stesso tempo, senza una chiara analisi della sua situazione interna, difficilmente riusciremo a capire quel che si muove nella Repubblica islamica khomeinista e a fare una valutazione fredda. Pensare all'Iran come a un Iraq più popoloso, come a una rigida dittatura araba (e gli iraniani sono in maggioranza persiani, non arabi) sullo stile di quella del rais di Baghdad o di Damasco o anche di Amman e il Cairo, è frutto di uno strabismo intellettuale desolante per noi occidentali.

La società iraniana è al centro di grandi cambiamenti. Non è assolutamente chiaro quali saranno gli sviluppi di questa realtà politica ed economica, fatta di tantissimi giovani. Prezzo del petrolio permettendo, non è escluso che l'Iran sia sul punto di un importante sviluppo economico-politico, tanto che alcuni osservatori iraniani paragonano questa fase della rivoluzione khomeinista come caratterizzata da una specie di Banda dei Quattro (Ahmadinejad e i suoi alleati) con i Pasdaran come le Guardie rosse. Ma anche queste suggestioni possono essere fuorvianti.

Cerchiamo di capire com'è formato il panorama politico iraniano. Prendiamo questa analisi da uno dei migliori giornali che si occupino di questioni orientali, l'Asia Times. Sono quattro le fazioni che si stanno sfidando a Teheran in una lotta per il potere all'ultimo sangue.

  • La prima fazione è una specie di estrema destra, molto religiosa, che sembra allineata ai Fratelli musulmani egiziani (e anche il contraltare dei neo-con e dei fondamentalisti statunitensi che, per motivi teologici, sono sionisti e credono l'Iran sia il principale ostacolo all'arrivo del nuovo Messia). Questa prima fazione sembra essere interessata al superamento delle storiche divisioni coi sunniti e fa il tifo, in Iraq, per il giovane religioso sciita arabo Muqtada al Sadr, capo delle milizie dell'Esercito del Mahdi. Questa fazione è vicina anche agli Hezbollah libanesi. A questo gruppo fanno fanno riferimento i Pasdaran e Ahmadinejad, che è la loro massima espressione. Questo rende il presidente iraniano non un'espressione diretta della Guida spirituale ayatollah Ali Khamenei, che infatti alle presidenziali aveva un altro candidato favorito, Baqer Qalibaf. E' un errore consueto, in Occidente, consideraere Ahmadinejad come una marionetta di Khamenei: non è così. Al momento questa fazione, pur avendo imposto il proprio presidente (anche attraverso ampi brogli), sembra sulla difensiva, rispetto a un'inedita alleanza che si sarebbe creata tra i religiosi, all'area pragmatica di Hashemi Rafsanjani (l'Andreotti iraniano...)
  • La seconda fazione è quella che fa riferimento alla Guida spirituale, il successore di Ruhollah Khomeini, l'ayatollah Khamenei. Il suo nerbo è costutuito da religiosi provinciali. Sono conservatori puri, legati alla "purezza" della rivoluzione islamica del 1978, per nulla interessati a forme d'integrazione con i sunniti. La loro grande utopia è quella di unire il popolo iraniano sotto l'unica bandiera del velayat-e-fatiqh (l'autorità della Legge, islamica ovviamente). Sono più interessati al rafforzamento delle fondazioni, dalle quali traggono la loro ricchezza economica, e comprendono che un confronto forte col Grande Satana statunitense crea problemi economici. D'altronde, se Washington desse una spallata al giovane populista Ahmadinejad, a loro non è che dispiacerebbe troppo.
  • La terza fazione è quella della sinistra riformista dell'ex presidente M0hammed Khatami. Anche questa nasce da una costola della rivoluzione islamica e, precisamente, si rifà ad Ahmad Khomeini, il figlio del grande ayatollah che morì in circostanze misteriose negli anni '90. Legati al concetto di "dialogo delle civiltà", hanno subito un indebolimento forte perche' il loro terreno è stato scavato a sinistra da formazioni più radicali e più secolari.
  • L'ultima fazione è quella di Rafsanjani, pragmatica e centrista, capace di sfruttare destra e sinistra. Oggi guarda a "sinistra", cercando di catalizzare il sostegno di sempre più giovani provenienti dalle città e di intellettuali spaventati dagli eccessi di un Ahmadinejad, tanto incontinente nelle sue esternazioni, in quanto sempre più messo di lato dalle leve del potere reale. Rafsanjani è e resterà sempre fedele a Khamenei, ma nello stesso tempo è capace di dialogare col mondo secolare. Ha perso le elezioni, ma sa interpretare il ruolo di "vecchia volpe" che non necessariamente finisce in pellicceria. In Italia noi abbiamo un esempio abbastanza evidente di questo tipo di politico...

Da questa classificazione ho volutamente tenuto fuori la corrente politica più di sinistra (come i comunisti del Tudeh) e più secolare, che è fortissima tra i giovani. Questo non per motivi numerici, anzi. Ma perche' non è in questo momento così dentro i giochi da poter essere rilevante per il discorso che marcopolo vuole fare.

C'è margine di manovra per la diplomazia internazionale, insomma. L'esigenza di uno sviluppo economico, per dare una risposta alle giovani generazioni in cerca di lavoro, potrebbe portare a una liberalizzazione degli affari (e di conseguenza dei costumi), piuttosto che alla catastrofe di una guerra con gli Usa che, secondo un conto dell'Accademia delle scienze americana, potrebbe costare un milione di morti tra i civili.

Ahmadinejad e i suoi amici Pasdaran, con le loro dichiarazioni bellicose, potrebbero saldare un fronte tra le fazioni pagmatica e progressista (con una complice non belligeranza di quella religiosa), al fine di rispondere a queste esigenze di sviluppo economico che è il vero interesse dell'Iran. E potrebbero anche essere messi fuori gioco. Non dimentichiamo che le elezioni in cui il populista è stato eletto sono state marchiate da brogli e irregolarità di ogni tipo e che la percentuale di iraniani che votò fu minima. Ma per garantire un'ipotesi del genere, la comunità internazionale deve avere la capacità di essere ferma senza sbattere la porta in faccia all'Iran. Una chiusura totale, la minaccia di guerra, il tentativo di umiliare gli iraniani, porterebbe a un compattamento favorevole solo alle parti più irresponsabili della politica iraniana. E questo porterebbe al disastro.

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giovedì, aprile 27, 2006

La lenta caduta nella trappola di Nassiriya



Luglio 2003

I giornalisti si siedono a tavola. La vista è bella, si vede l'Eufrate che scorre nella città. Qualcuno scherza: "Bella 'sta terrazza sul Lungotevere...". Si ride.

La sicurezza ancora non passa agli italiani. Sul terrazzo di "Animal House" a Nassiriya, lo spettacolo è stridente. I soldati statunitensi, armati di tutto punto, agli angoli del terrazzo, fanno la guardia a fucili spianati. Alcuni stanno sdraiati sulle brande da campo, messe sulle terrazze perche' dentro il caldo è insopportabile.

Al centro del terrazzo, una tavola imbandita. Si mangiano penne, si beve un po' di vino. Dopo una giornata soffocante, anche i quasi 40 gradi della sera danno la sensazione di un fresco sollievo.

I carabinieri, i bersaglieri, i giornalisti chiacchierano, ridono. Parlano di una missione che sembra nata bene. La gente sembra aver accolto bene gli italiani. Sono sciiti, hanno sofferto sotto Saddam. I bambini giocano coi bersaglieri e coi carabinieri. Si respira aria di speranza.

Finita la cena, i giornalisti s'incamminano a piedi lungo la strada che costeggia l'Eufrate. Saranno le 11 di sera. Non ci sono timori. Una bella passeggiata, fino all'hotel, munito di aria condizionata...

Novembre 2003

"Animal House" non c'è più. O meglio, resta uno scheletro, un orrendo monumento alla morte. Si sente puzza di bruciato dappertutto. I giornalisti, che avevano cenato a luglio su quel terrazzo, guardano sconsolati i militari del Ris (il reparto d'investihazione scientifica dei carabinieri) che fa il suo lavoro. Sanno che nulla sarà come prima.

Si riesce comunque ancora a uscire da soli. I giornalisti salgono sulle auto coi loro autisti-interpreti e vanno in cerca delle storie da raccontare. Non è un problema entrare nel suq, nel mercato. Perdersi in quei vicoli puzzolenti di pesce, farsi largo tra le mosche, e vedere anche i tessuti coloratissimi del mercato. Ogni tanto scoppiano tafferugli, spesso sono soldati che vogliono i loro stipendi.

La notte di Capodanno alcuni giornalisti prendono un auto, poco prima della mezzanotte, e vanno da "White Horse", la base principale italiana a sei km da Nassiriya, per andare a trascorrere la mezzanotte coi carabinieri di base Libeccio, proprio accanto ad "Animal House". Solo un mese prima sono stati duramente colpiti: c'è una storia da raccontare. Un po' di stupore li coglie quando, festeggiando a bistecche l'arrivo del nuovo anno, notano che hanno pronte le maschere antigas...c'è stato un allarme? Così pare.

Novembre 2004

Non ci si muove più dalla base militare. C'è stato di tutto nei mesi precedenti: rapimenti, battaglie, attentati. A Nassiriya, che erroneamente era considerato uno dei posti più tranquilli dell'Iraq, si è combattuto furiosamente. La "battaglia dei ponti" ha fatto molti morti.

Anche per i giornalisti, i movimenti indipendenti sono rarefatti, quasi impossibili. Per quanto i militari siano efficienti e cerchino di dare notizie quanto più accurate possibile, si rendono conto che è impossibile lavorare così.

Per di più, la base italiana di White Horse è rimasta solo come avamposto in via d'abbandono. Il grosso del contingente si è spostato a Camp Mittica, a Tallil, a 11 km da Nassiriya. E' collegato all'aeroporto militare nelle mani degli americani. La base dei carabinieri in città non esiste più. Il contingente italiano è sempre più una cittadella isolata rispetto al resto di Nassiriya dove, a quel che se ne sa, la fanno da padroni capi tribali tradizionali e milizie sciite. Resta forte quella legata al religioso sciita Muqtada al Sadr.

27 aprile 2006

Un IED, cioè un ordigno artigianale collocato lungo la strada, fa saltare in aria un mezzo italiano. Muoiono almeno tre carabinieri e un romeno. Il governo ha annunciato che presto ci si ritirerà. Il governo che deve venire vuole anche fare prima. Intanto a Nassiriya si muore ancora, in una missione che sembra sempre più una trappola.

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mercoledì, aprile 26, 2006

Colpiscono il Cairo, ma puntano a Gerusalemme


Piccola aggiunta a quanto scritto su Osama e sul tentativo di al Qaida d'inserirsi nelle dinamiche politiche della questione palestinese. Gli attentati dell'altroieri e di oggi in Egitto, secondo diversi osservatori, nonche' la chiave di lettura del video del tagliagole giordano Abu Musab al Zarqawi, trasmesso ieri, s'inseriscono nella stessa logica.

Guido Olimpio sul Corriere della Sera oggi sottolinea come il n. 2 di al Qaida Ayman al Zawahiri (egiziano ed ex esponente della Fratellanza islamica) abbia detto già nel 2001 che "la via per liberare Gerusalemme passa dalla liberazione del Cairo". Così, è lo stesso al Zawahiri a innescare nel 2004 i kamikaze che colpiscono a Taba (dove, ricordo, morirono anche due ragazze italiane). La strage di Dahab, come quella di Sharm el Sheikh e quella di Taba, s'inserirebbero insomma nelle dinamiche del conflitto israelo-palestinese. E tenderebbero a delegittimare la scelta "elettorale" del gruppo estremista Hamas in Palestina, ma anche della Fratellanza in Egitto.

Qui, un piccolo inciso. L'autocrate corrotto Hosni Mubarak aveva promesso riforme prima di essere rieletto presidente. Le riforme non si sono viste, anzi. Il leader democratico Ayman Nour è stato sbattuto in galera con una scusa futile (falsificazione della documentazione elettorale...pare che sia di moda creare casi del genere, vedi caso che coinvolge Storace in Italia). La mossa ha lo scopo di spianare la strada al figlio dell'autocrate, Gamal. E, intanto, la cricca Mubarak continua a fare soldi sui resort turistici del mar Rosso. C'è da chiedersi perche' la nostra industria turistica, in barba al potenziale di rischio che c'è nell'andare in quelle zone, continui a mandarvi turisti.

Ma torniamo ai nostri terroristi. Anche al Zarqawi, mente certo meno fina di al Zawahiri, ha espresso concetti simili a quelli del numero due del brand terroristico. "O cara nazione islamica, noi facciamo come il Profeta, combattiamo in Iraq ma abbiamo sempre in mente Gerusalemme", ha detto il tagliagole.

Fatte queste considerazioni si pone un problema anche per noi occidentali. Bin Laden e Zawahiri hanno sempre condannato, scrive Olimpio, la scelta di Hamas di limitare la loro strategia kamikaze a Israele e di non esportare gli attentati all'estero, nelle località turistiche, contro gli israeliani in particolare. Da questo punto di vista, la divergenza strategica è pericolosa. Se, infatti, il primo ministro designato da Hamas, Haniyeh, si è affrettato a definire "un crimine odioso" l'attentato di Dahab non è perche' sia diventato buono, ma perche' teme che il messaggio di al Qaida e del salafismo più estremo possa attecchire nelle masse diseredate di Gaza, scavando il terreno sotto i piedi di Hamas stessa. In questo senso, c'è da chiedersi se, piuttosto che la strategia di chiusura e di stop agli aiuti decisa da Stati Uniti e Unione Europea, non sia più "efficace" la politica di dialogo con Hamas scelta da Russia e Cina. Sia chiaro: "efficace non vuol dire "eticamente giusta", ma talvolta anche Machiavelli può esser messo al servizio di un mondo meno pericoloso.

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domenica, aprile 23, 2006

Torna Osama, il mercante del terrore


Se qualcuno avesse ancora qualche dubbio sul fatto che al Qaida stia tentando di appiccicare la sua etichetta anche sulla questione palestinese, oggi può metterlo da parte. A fugare questi dubbi è arrivato oggi il capo stesso del gruppo (ma si può chiamare così? forse potremmo chiamarlo "brand") terroristico: Osama Bin Laden.

Un nastro audio è stato diffuso dalla rete satellitare pan-araba al Jazeera. La voce apparirebbe essere proprio quella dello sceicco. Tra gli inviti al jihad, spicca una dichiarazione dal contenuto squisitamente politico e tatticamente molto efficace. Bin Laden sostiene che la decisione dell'occidente di tagliare gli aiuti all'Autorità nazionale palestinese, dopo la vittoria elettorale del gruppo radicale islamico Hamas, dimostra che è in corso "una guerra di crociati (ndr: cristiani) e sionisti (ndr: ebrei) contro l'Islam".

L'operazione è sottile. Hamas ha sempre rigettato legami con al Qaida. Il gruppo radicale è legato alla Fratellanza islamica egiziana (ma, in fondo, anche Ayman al Zawahiri, il numero 2 di al Qaida, proviene dalla Fratellanza...). Più volte gruppuscoli locali hanno affermato di fare riferimeto ad al Qaida, ma nessuno di questi ha mai avuto la portata di Hamas.

Invece, da tempo ormai, Hamas sta approfondendo i rapporti col mondo sciita. Ha cominciato con gli Hezbollah libanesi, ammirati per essere stati uno dei fattori che hanno spinto Israele a lasciare il Paese dei Cedri. Poi questi legami si sono allargati allo stesso Iran, che si è affrettato nei giorni scorsi a promettere ad Hamas 50 milioni di dollari in aiuti.

Resta da capire se e quanto Teheran abbia intessuto relazioni con la galassia fondamentalista che fa riferimento a Bin Laden. Nei giorni scorsi Mahmoud Ahmadinejad, il pasdaran presidente della Repubblica islamica, ha dichiarato che, in caso di attacco militare contro l'Iran, ha pronto un battaglione di decine di migliaia di kamikaze pronti a "operazioni di martirio". Questa comunanza di strumenti, certo, non dice quasi nulla su un eventuale avvicinamento tra Iran e al Qaida, che non si sono mai visti troppo di buon occhio, ma la dice lunga su quanto le scintille in Medio Oriente mettano a rischio anche le nostre città.

Di certo, una gran familiarità con l'utilizzo dei kamikaze (o con la strumentalizzazione di essi, soprattutto dopo che hanno portato a termine attentati) ce l'ha al Qaida. Osama, anche nell'audiocassetta diffusa oggi, ha posto obiettivi strategici. "Mi rivolgo ai mujaheddin e i loro sostenitori, specialmente in Sudan e nella penisola araba, perche' si preparino a una lunga guerra contro gli invasori crociati in Sudan occidentale. Il nostro scopo non è difendere il governo di Khartoum, ma difendere l'Islam, le sue terre e la sua gente", dichiara lo sceicco facendo riferimento alla questione del Darfur e alla missione Onu che lì opera. Proprio in Sudan Osama s'era rifugiato prima di trovare accoglienza nell'Afghanistan dei talebani.

Ah, il messaggio ci dice anche un'altra cosa: Osama è vivo e lotta contro di noi.

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venerdì, aprile 21, 2006

Risiko nucleare in Medio Oriente


Finora si è parlato di quel che accade "in" Iran. MarcoPolo, invece, vuole buttare un fascio di luce su cosa accade "attorno" all'Iran. Che tipo di reazione, cioè, potrebbe provocare un'eventuale ingresso di Teheran nel club atomico in paesi arabi vicini, in particolare in quelli dalla collocazione più ambigua. Per esempio: l'Arabia Saudita.

C'è un tam tam in corso in certa pubblicistica vicina ai servizi d'intelligence (in particolare, francesi...). Le notizie che MarcoPolo riporta oggi sono tratte proprio da quella pubblicistica.

Diplomatici e ambienti militari delle monarchie del Golfo, da sempre nemiche strategiche regionali di Teheran, considerano un'azione militare americana contro le cinque strutture nucleari iraniane come ineluttabile. Alcune fonti ritengono che l'attacco (Usa, o coordinato Usa-Israele) avverrà entro la fine dell'anno. Quindi, si pongono un problema: è pensabile che l'Iran non consideri obiettivo le vulnerabili strutture petrolifere di questi paesi? No, non è possibile e lo scenario in quel caso è da incubo.

Riyadh non ha alcuna intenzione di restare vulnerabile rispetto alla potenza regionale sciita. In questo quadro si pone una visita compiuta la settimana scorsa da Sultan bin Abdulaziz, principe della corona saudita e ministro della Difesa, in Pakistan. Lì ha incontrato il presidente Pervez Musharraf, il ministro della Difesa Raw Iskandar, il capo dell'Isi (il servizio segreto che ha "creato" i talebani) Ashfaq Pervez Kiani e il capo dell'antiterrorismo dell'Isi Mohammad Zaki. Piatto forte del programma pachistano di Sultan: una bella gita a Kahuta, dove ci sono i laboratori di ricerca dove vengono sviluppate le bombe atomiche pachistane. Non è il primo approccio di questo tipo da parte di Riyadh. Nell'ottobre 2004 il figlio di Sultan, Khaled, fece visita ai laboratori creati dallo scienziato Abdul Qhader Khan, la cui figura è nota alle cronache per essere un noto "proliferatore" di tecnologia nucleare.

Durante la visita a Kahuta, Sultan ha chiacchierato amabilmente con l'ex capo dei laboratori Javed Arshad Mirza, per dirgli che l'Arabia Saudita ritiene necessario migliorare le competenze dei propri fisici in vista dello sviluppo di un programma nucleare che preveda anche la produzione di urano arricchito. Ovviamente, a "uso civile"...almeno quanto quello di Teheran, è lecito sospettare.

Perche' tutto questo attivismo proliferatorio da parte di Riyadh? La pubblicistica dell'intelligence ha una risposta. Al Direttorato generale saudita dell'intelligence sarebbero arrivati rapporti sempre più allarmati dalle "antenne" di Teheran in merito a un'accelerazione senza precedenti del programma nucleare iraniano da quando i Pasdaran (le Guardie rivoluzionarie, la frangia più estrema del movimento khomeinista, di cui il presidente Mahmoud Ahmadinejad è un rappresentante) sono saliti al potere. In seguito a questi allarmi, il re saudita Abdallah bin Abdulaziz avrebbe chiesto a Sultan di prendere le "opportune contromisure". E, in una visita ufficiale a febbraio a Islamabad, il re personalmente avrebbe posto le basi per la cooperazione nucleare. A Sultan e al figlio sarebbe stata affidata la parte tecnica della realizzazione del progetto.

Ma i guai non finiscono qui. Ai sauditi non basta il sostegno tecnico pachistano. E così si sarebbero anche rivolti all'Egitto. Regolarmente scienziati egiziani si recherebbero in territorio saudita per fornire i propri servigi. In cambio l'uomo forte del Cairo, Hosni Mubarak, spera di poter far risorgere dalle sue ceneri il programma nucleare militare egiziano, con denari sonanti sauditi.

Le mosse di Riyadh, inoltre, si basano anche sull'assunto che la dinastia saudita non si sente più troppo a proprio agio nelle vesti di chi dipende in tutto e per tutto, sul fronte della sicurezza, dagli Stati Uniti. Ai sauditi non dispiacerebbe dislocare un po' di missili pachistani sul proprio territorio, in particolare i Ghauri Hatf-5 (variante dei Nodong nordocoreani), che hanno una gittata di 1.000 km, ottimi per una risposta a eventuali attacchi alle strutture petrolifere da parte dei missili iraniani Shahab-4. D'altro canto, il Pakistan non disdegnerebbe di mostrare a Washington una capacità propria, visto anche il riavvicinamento che George W. Bush ha avuto col nemico storico di Islamabad, l'India.

Quale che sia il livello di certezza di queste notizie, un fatto è certo: la partita non riguarda solo l'Iran.

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mercoledì, aprile 19, 2006

La strategia Usa: attenti al pericolo giallo!




MarcoPolo ha con la Cina, come ben sapete, un rapporto particolare. E alle questioni che riguardano la nuova grande potenza che sta emergendo in Asia orientale ci sta particolarmente attenta. Da ieri il leader di questo enorme paese, Hu Jintao, è in visita negli Stati Uniti. E' una visita cruciale per l'uomo forte di Pechino: dai rapporti con Washington deriva la stabilità, statene certi, del mondo intero.

Ma cosa trova dall'altra parte l'uomo di Pechino? "Il nostro primo obiettivo è impedire il riemergere di un nuovo rivale...che ponga una minaccia della grandezza di quella posta precedentemente dall'Unione Sovietica", afferma un documento fondamentale della dottrina strategica statunitense: il Defense Planning Guidance degli anni 1994-1999, primo documento che sancisce gli obiettivi americani dell'era post-sovietica. "Dobbiamo fare in modo - continua il documento - d'impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione con risorse il cui controllo consolidato sia sufficiare a creare un potere globale".

Il documento, redatto sotto la presidenza di George Bush senior, filtrò quando era ancora in fase di bozza. L'opposizione degli alleati degli americani costrinse Washington a metterlo da parte finche', con l'arrivo alla presidenza di Bush figlio, nel febbraio 2001, non ritornò alla vita.

Quando fu redatto, in verità, il nome dell'eventuale rivale era in bianco. Poteva essere la Russia, come la Germania, come l'India o il Giappone. E, ovviamente, poteva essere la Cina. Alla fine, effettivamente, pare che il rivale straegico degli Usa sarà Pechino e, nei suoi confronti, è presumibile che la strategia americana sia quella del "contenimento". A spiegarlo sono stati in questi anni alcuni dei principali collaboratori di Bush, dall'attuale segretario di stato Condoleezza Rice all'esperto di antiterrorismo della Casa Bianca Richard Clarke.

Le vicissitudini della guerra al terrorismo e della guerra in Iraq sembavano aver distratto l'America dall'obiettivo cinese. Ma non è mai stato così e ci sono analisti che vedono nei conflitti in corso un episodio di un confronto di lungo corso proprio tra Washington e Pechino per accaparrarsi le risorse.

Di certo sta che dalla primavera del 2005 gli americani hanno ripreso a battere sul tasto cinese. Il segretario alla Difesa Donald H. Rumsfeld, per esempio, ha lanciato l'allarme sul fatto che la Cina sta rafforzando fortemente il suo apparato di difesa. Pechino non ha fatto molto per smentirlo, fino a effettuare una serie di manovre congiunte con i russi, che mai al tempo dell'Urss erano stati così benevoli con i fratelli comunisti cinesi. Certo, potrà obiettare qualcuno: ma gli investimenti per la difesa di Pechino, per quanto in crescita forte, non sono che una frazione di quelli di Washington.

L'antifona è comunque chiara: Pechino sta agendo per diventare potenza regionale egemone. E questo va contro la dottrina strategica Usa. Washington ha cominciato a muovere le sue pedine. A febbraio 2005 ha firmato con il Giappone una "Dichiarazione congiunta Usa-Giappone per un comitato consultivo sulla sicurezza". In questa dichiarazione si poneva soprattutto la questione di Taiwan, che Pechino considera provincia ribelle, e che Tokyo e Washington considerano loro interesse primario. Contemporaneamente, giova dirlo, gli Usa hanno agito politicamente su Taipei perche' eviti colpi di testa, come una dichiarazione formale d'indipendenza da Pechino.

La Cina, intanto, non è stata a guardare e ha rafforzato la sua posizione in Asia sudorientale (area Asean) e in Asia centrale (Cooperazione di Shanghai), cruciale per gli equilibri geopolitici americani. L'America è in affanno nel tentare di contenere l'influenza cinese in queste regioni e sarà cruciale il ruolo che riuscirà a svolgervi il Giappone. Non è un caso che Tokyo e Washington abbiano anche accelerato il processo d'integrazione delle loro forze armate in chiave di "interoperabilità". Il Giappone, tra l'altro, ha ottenuto la protezione dell'ombrello missilistico americano. Altro alleato chiave nella regione è l'Australia, che in questa maniera gode di una posizione incisiva da un punto di vista geopolitico. E come non sottolineare l'enorme riavvicinameto degli Usa con l'India, sancito dalla visita in America del primo ministro indiano Manmohan Singh, che ha di fatto sdoganato la potenza nucleare indiana alla faccia del principio di non proliferazione? La strategia, insomma, è quella di creare un network di paesi accomunati dalla preoccupazione nei confronti di Pechino.

La strategia di contenimento è stata inoltre sancita ulteriormente dal Quadriennal Defense Review, prodotto dal Pentagono il 5 febbraio scorso, che ha sancito le priorità strategiche per i prossimi quattro anni, riprendendo il documento del '92 di cui si parlava. Gli Usa, spiega, "tenteranno di dissuadere ogni concorrente militare dallo sviluppare capacità distruttive o altre capcità che possano portare a un'egemonia regionale o ad azioni ostili nei confronti degli Usa". Ma questa volta il documento è pià esplicito: "Tra le potenze maggiori ed emergenti, la Cina ha il più grande potenziale di competere militaremente con gli Stati Uniti e tecnologie militari che possono eliminare il tradizionale vantaggio Usa". Musica per le orecchie dell'industria militare a stelle e striscie.

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martedì, aprile 18, 2006

Sull'Iran, ragazzi, ci vuole prudenza...


E diciamolo: se c'è un paese che deve ringraziare gli americani per la folle scelta di fare la guerra in Iraq, questo è l'Iran. Si proprio quel paese che oggi sembra il nuovo nemico numero uno di Washington.

George W. Bush è stato chiaro: "Nessuna opzione è esclusa con Teheran, neanche quella militare". Il Capo supremo delle forze Usa, insomma, potrebbe anche scagliare un attacco contro la Repubblica islamica. Lo farà? Tutto è possibile. Certo, l'attacco sull'Iran molto probabilmente non sarà una passeggiata come quello all'Iraq, dove (è vero) la stabilizzazione non c'è mai stata, ma la parte militare tradizionale s'è conclusa in breve tempo.

Non sarà semplice non solo perche' il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad promette di "tagliare le mani" agli aggressori. In fondo, le guasconate dell'ex pasdaran non vogliono dire nulla. MarcoPolo ritiene invece che sarà dura per una serie di considerazioni logiche.

La prima: l'Iran non sembra strutturalmente debole come il regime iracheno di Saddam Hussein. La seconda: negli ultimi anni a livello regionale l'Iran si è rafforzato notevolmente. Da un lato, ha allargato la sua sfera d'influenza all'Iraq, grazie alla comune appartenenza sciita dell'attuale gruppo forte oggi al potere nell'ex paese di Saddam. Dall'altro, agisce come una potenza regionale importante. Ne è un esempio il fatto che s'è affrettato a offrire aiuti economici ai palestinesi, dopo che la vittoria di Hamas ha chiuso loro i rubinetti degli aiuti dall'Occidente.

E' evidente che Washington non godrà affatto dell'aiuto di Russia e Cina nel caso decidesse di attaccare Teheran. Ed è chiaro che in questi anni la Repubblica islamica non è stata a guardare e non s'è limitata ad attendere un eventuale "tempesta di fuoco" del Grande Satana. MarcoPolo non parla solo del presunto sforzo per dotarsi dell'arma nucleare, ma anche del fatto che sono stati scoperti diversi episodi di tentativi d'esportazione illegale di armi dagli Stati Uniti stessi all'Iran.

Insomma, la speranza di chi scrive è che prevalga la ragione: che ci si sieda a un tavolo e si ragioni col regime degli ayatollah. E che magari quel tavolo non sia ancora lo stesso formato dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, più la Germania, che di fatto sta già agendo come sesto membro ombra. Quando si sveglierà la politica estera italiana, che in Iran un tempo aveva un ruolo importante?

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giovedì, aprile 06, 2006

Economist: "Basta, Berlusconi"


Il mondo ci guarda ancora una volta. Il 9 e 10 aprile 2006 gli italiani dovranno recarsi alle urne per decidere chi prenderà in mano le redini del paese per i prossimi cinque anni. Ancora una volta, come nel 2001, il prestigioso settimanale britannico ha preso nel numero oggi in edicola una posizione precisa, che è quella che potete leggere nel titolo.

Cinque anni fa l'Economist definì il Cavaliere "unfit", inadatto, a governare. I motivi erano due: il pesante conflitto d'interessi di cui Berlusconi è portatore e che non non ha risolto, e la mole di processi era è rimane implicato.

Questi motivi, spiega il settimanale, rimangono tutti. "Ma - aggiunge l'Economist - cinque anni dopo noi abbiamo una nuova e ancor più devastante ragione per chiedere la rimozione di Berlusconi dalla sua carica: i suoi risultati".

L'Economist denuncia il fatto che la legislatura berlusconiana è stata caratterizzata da "una valanga" di nuove leggi per impedire la sua condanna nei processi penali. "Ha dedicato gran parte del suo tempo non solo a cambiare le leggi per beneficiare se stesso e i suoi amici, ma anche per delgittimare procuratori e giudici italiani, minando la credibilità dell'intero sistema giudiziario del suo paese".

Poi però il settimanale passa al campo che gli è più congeniale: l'economia. "L'Italia oggi, tra le grandi economie europee, è quella che cresce più lentamente", spiega il settimanale. Il paese è in crisi di competitività, dice ancora l'Economist, e il governo Berlusconi ha cancellato i miglioramenti che il suo predecessore era riuscito a ottener enella finanza pubblica. Col risultato che deficit e debito pubblico ("il terzo al mondo") crescono ancora. Berlusconi, ancora, non ha fatto le riforme e le liberalizzazioni che ci si aspettava, a parte le riforme del mercato del lavoro e delle pensioni.

Ovviamente poi l'Economist analizza anche i limiti della coalizione di centrodestra. Pone dubbi sulla capacità di Romano Prodi di fare le riforme visto il fatto che, se dovesse vincere le elezioni, andrebbe a Palazzo Chigi a capo di una coalizione eterogenea di cui fanno parte anche forze che non hanno idee liberali nel loro Dna, come i comunisti. Inoltre, pone dubbi sulla politica estera che il governo Prodi potrebbe seguire in considerazione delle idee del Professore sull'Europa ("è un fedele dell'idea di un superstato federale europeo") e sull'atteggiamento rispetto agli Stati Uniti.

Dubbi che, tuttavia, non indeboliscono la scelta di campo del prestigioso settimanale. Sentite come conclude l'articolo: "E' sull'economia che si svolgerà il test critico. Disgraziatamente, la gran parte degli italiani ancora non si rende conto di quanto sia diventata malata la loro economia. Per questa ragione, potrebbero non essere pronti per i sacrifici di una riforma. Berlusconi non potrebbe certo spingerli a questi e rimane inadatto a quel ruolo in ogni caso. Gli italiani dovrebbere votare per Prodi, non per il Cavaliere (ndr: in italiano nel testo)".

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mercoledì, aprile 05, 2006

Rom, un popolo

MarcoPolo oggi si sposta in Italia. Potrebbe sembrare strano per un blog che si occupa di politica estera. Tuttavia ci sono aspetti della nostra vita interna che riguardano anche la politica estera, come quello che vuole trattare oggi. Parliamo di Rom, cioè di quel popolo che convive con noi, nel nostre stesso territorio, e che spesso nella peggiore pubblicistica è associato a reati.

Ricordate la storia pompata da Vespa&Co. e dalla Lega delle zingarelle che volevano strappare dalle braccia della madre una neonata? Beh, era una balla, gonfiata dalla comprensibile apprensività di una madre e dalla colpevole strumentalizzazione propagandista di alcuni politicanti senza scrupoli. Questa bubbola, tuttavia, è indicativa di un problema enorme: gli italiani esercitano un quotidiano razzismo nei confronti di una minoranza.

Razzismo, si badi bene, trasversale e non provato solo da queste fandonie. Lo si percepisce nei discorsi della gente e lo si respira nelle condizioni immonde in cui ghettizziamo i rom italiani. La certificazione di questa realtà ce l'ha appioppata l'Europa. Facciamo un passo indietro nel tempo: giugno 2005. Il commissario per i diritti umani dell'Unione Europea Alvaro Gil-Robles si reca in Italia per preparare il suo rapporto sulla condizioni dei diritti umani del popolo rom.

La visita al campo nomadi Casilino 900 è sconcertante: inadeguate condizioni di vita, accesso all'acqua difficile e minimo, niente strade interne, niente illuminazione pubblica, niente fogna. La gente ammassata in vecchi caravan scassati arruginiti. Le lamentele dei medici volontari sullo stato precario della salute pubblica nel campo.

Un caso isolato? Andiamo, tutti viviamo in questo paese e sappiamo che quella è la drammatica normalità. Avete presente il campo nomadi di Foggia, quello andato a fuoco recentemente? Era forse diverso?

Il rapporto, pubblicato a dicembre 2005, è ovviamente impietoso. Oltre alla drammatica situazione degli alloggi, fornisce un quadro fosco per il futuro. I bambini rom godono di un accesso limitatissimo, per esempio, alle scuole. I campi nomadi troppo isolati, la situazione finanziaria drammatica delle famiglie e, spesso, la mancanza di documenti, pongono un'ipoteca sul futuro di questi ragazzini che, in mancanza di una scolarizzazione, di certo non potranno un domani aspirare a un lavoro "normale". Per il commissario, insomma, "sono necessarie misure urgenti per permettere ai giovani rom di andare a scuola normalmente".

La situazione è anche peggiore per i rom non italiani. Spesso hanno enormi difficoltà a ottenere i permessi di soggiorno, nonostante in svariati casi vivano da decenni in Italia. Questo anche perche' la nuova legge sull'immigrazione, la scellerata Bossi-Fini, lega la concessione dei permessi alla presenza di contratti regolari. E pensare che questo orgoglioso popolo indo-europeo fa parte della nostra storia e ha vissuto (incolpevole) i drammi da noi provocati, come le deportazioni nei campi di sterminio.

Il rapporto europeo, tuttavia, fornisce una soluzione. Ebbene, il problema di fondo è che i 120mila rom italiani non hanno quella protezione normativa che sarebbe fornita loro dalla concessione dello status speciale di minoranza. Le autorità italiane, insomma, continuano a considerare i rom non un popolo quale essi sono, riconosciuto da tutti i paesi civili, ma nomadi recidivi che preferiscono la vita nei campi-lager a una stabilizzazione. Talvolta li considerano semplici "stranieri" anche se magari tantissimi di loro sono cittadini italiani e tanti vivono nel nostro paese da decenni. E' necessario un cambiamento coraggioso di mentalità. Ma ci saranno forze politiche capaci di sfidare il razzismo e i pregiudizi con un approccio razionale al problema? MarcoPolo se lo augura.

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martedì, aprile 04, 2006

La capitale spostata


Nel Giappone delle origini quando un imperatore moriva si spostava la capitale e si costruiva una nuova città. Sembra un'attitudine pre-storica. Eppure proprio in questi mesi questo rito si è ripetuto, e non c'è stato neanche bisogno che morisse un re. Il paese in questione è probabilmente il più antidemocratico che esista al mondo: Myanmar.

Come molti di voi sapranno, Myanmar è il nome nuovo della vecchia Birmania. Se guardate un atlante stampato anche solo nel 2005, leggerete che la capitale del paese è Yangon (conosciuta anche col vecchio nome di Rangoon). Beh potete buttare l'atlante, perche' la giunta militare golpista che tiene il potere nel paese del sud-est asiatico, usando il sarcastico nome di Consiglio per la pace e lo sviluppo dello stato, ha spostato la capitale a Pyinmana, posto semisconosciuto a 400 km a nord di Yangon. E l'ha fatto in tutta segretezza. Tanto che tre giornalisti sono stati condannati alla prigione per aver fotografato la nuova capitale senza permesso ufficiale.

Immaginatevi migliaia di funzionari di stato e impiegati avvertiti un giorno prima che il governo e l'amministrazione si spostavano nella jungla. Immaginateveli letteralmente deportati. Perche'? Il regime ossessivo dei militari birmani è solito fare colpi di coda di questo tipo. Ma dietro, secondo molti osservatori, ci sarebbe un tentativo di restaurare un qualcosa di simile alla monarchia.

Than Shwe, il capo della giunta golpista, ha sistematicamente riportato alla luce simboli della vecchia monarchia Awa, che fu sciolta dalla conquista britannica alla fine dell'800. Asia Times ci dà notizia del fatto che il 27 marzo è stata celebrata una festa dell'esercito in Pyinmana, denominata anche "Città reale". E' la stessa data della fondazione dell'esercito di liberazione del paese nel 1945. La parata si è svolta sotto lo sguardo austero di tre statue d'oro di re birmani del passato. La capitale, peraltro, si trova sulle stesse colline da cui partì il movimento di liberazione anti-giapponese del generale Aung San, fondatore della Birmania libera. Ironia della storia: si tratta del padre di Aung San Suu Kyi, la leader democratica premio Nobel per la pace che vive da anni in prigionia.

A parte le ragioni meramente simboliche, comunque, lo spostamento della capitale birmana ha ragioni politico-strategiche importanti. Pyimana è più centrale rispetto a Yangon e permette un maggior controllo sia delle frontiere, sia dei gruppi ribelli, sia anche un maggior controllo dei comandanti regionali. Questo però indica un segno di debolezza, più che di forza. La giunta militare ha paura. Il suo potere scricchiola e la pressione internazionale per la liberazione della leader democratica non-violenta si fa sentire.

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