mercoledì, maggio 31, 2006

L'imperialismo culinario e gli ultrà delle balene

Se qualcuno arrivasse in Abruzzo o in Sardegna o dove vi trovate e, guardandovi schifati mentre mangiate il coniglio alla cacciatora o l'agnello arrosto o gli arrosticini di castrato, vi dicesse: "Che schifo! Ma come fai a magiare quella roba? Quelli erano animaletti così carini! Siete dei mostri d'insensibilità".

Pensateci. Potreste reagire scoppiando a ridere. Ma, se questo atteggiamento venisse dalle nazioni più potenti della Terra e queste nazioni avessero la possibilità di bloccare la macellazione dei conigli e degli agnelli, forse ridereste meno. E se, ancora, effettivamente bloccassero la produzione di carne di coniglio e agnello per vent'anni, allora forse v'incazzereste anche un po'. Bene: è quello che succede da 20 anni ai giapponesi per la carne di balena.

"Scandalo!" dirà qualche animo nobile volto da fremito ambientalista. "Non vorrai difendere il massacro delle balene?". No, non è questo il punto. L'idea di marcopolo è un'altra. Sulla questione della protezione delle balene ritiene ci mangino in troppi e, alla fin fine, questa lotta "ideologica" sui mammiferi marini spinge a uccidere più cetacei del necessario.

E' un'idea da sempre di marcopolo, ma oggi ne ha avuto una conferma leggendo un bell'articolo apparso su Japan Focus a firma David McNeill. Si tratta di un corrispondente inglese da Tokyo. McNeill racconta che, avendo avuto l'ennesima richiesta dal suo giornale di un servizio sulla caccia alle balene, è andato a raccontare la storia di un'azienda che inserisce carne di balena nel cibo per animali. Intervistando il gestore, si è reso conto di non aver a che fare con un mostro e ha fatto un pezzo in linea con quest'impresione. Ovviamente, il pezzo è stato cestinato.

"Io capisco come si sente la gente, ma onestamente non riesco a comprendere come possiate considerare le balene carine. Per me gli agnelli sono molto più carini delle balene e non mi sognerei mai di mangiarli", ha affermato il gestore dell'azienda, Kiyoshi Okawa, al giornalista. Questi, ovviamente, ha obiettato che le balene sono in via d'estinzione, diversamente dagli agnelli. La risposta di Okawa è stata anch'essa ovvia: per l'Agenzia nipponica della Pesca ci sono nei mari oltre un milione di balene di razza "minke" (quelle che pescano i giapponesi), altro che estinzione. "E io credo a loro", spiega Okawa.

Sulla popolazione delle "minke" ci sono dubbi. Gruppi ambientalisti affermano che non è vero che ci siano tutte queste balene in giro, i giapponesi (assieme a Norvegia e Islanda, altri paesi balenieri) dicono che il bando, imposto dal 1986, serve soltanto alle grandi organizzazioni ambientaliste (come Greenpeace). Fatto sta che nella prossima riunione di giugno dell'International Whaling Commission (IWC) ci saranno scintille, anche perche' i paesi balenieri sono convinti di avere il 51 per cento dei voti che, pur non bastando per eliminare il bando (ci vorrebbe il 75 per cento) porrebbe nelle loro mani un'arma notevole.

Certo, la storia sa essere davvero ironica. Nel 1854 lo statunitense commodoro Perry aprì con la forza i porti giapponesi: servivano agli americani come sosta di rifornimento per le loro baleniere. Oggi gli stessi americani nicchiano. In questo senso, l'accusa di "imperialismo culinario" che arriva da Tokyo ha sicuramente un senso. Purtroppo quest'accusa arriva da politici nazionalisti, spesso associati a un revisionismo storico e a forme revanchistiche. Ma, sulla questione delle balene, una certa presa quest'accusa ce l'ha.

"Io penso che sia possibile usare le risorse della caccia alle balene in una maniera sostenibile", ha affermato a McNeill il capo dell'Agenzia della Pesca Hideki Moronuki. "Noi - ha aggiunto - non abbiamo molto territorio, abbiamo il mare. Il Giappone ha già perso molto della sua cultura. Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno le loro risorse e noi non diciamo loro cosa mangiare".

E' un discorso così irragionevole? Il concetto di sostenibilità nell'utilizzo delle risorse, d'altronde, è utilizzato in tanti modi e spesso suona anche un po' ipocrita. Anche in questo caso, potrebbe essere così. Ma andiamo a vedere i dati reali. Il Giappone già oggi caccia circa 1.000 balene all'anno (2.000 vengono cacciate da tutti e tre i paesi balenieri messi assieme). Tante. Se ci fosse una liberalizzazione, molti ritengono che ci sarebbe un boom, ma non tutti la pensano così.

Basta avere un po' il polso della situazione per rendersene conto. La moratoria, infatti, ha coagulato un sentimento nazionalistico, pompato dai media, che è stato chiaramente sfruttato da politici di destra, come il liberaldemocratico nazionalista Shoichi Nakagawa, oggi ministro dell'Agricoltura e della Pesca, che hanno creato una vera e propria lobby. Questa lobby sostanzialmente finanzia le otto baleniere (navi per la ricerca "scientifica") che vanno a caccia delle balene nei cosiddetti "santuari" . E si tratta di fior di finanziamenti: non è che bastino poche lire. Ora, per essere chiari: già prima del 1986, anno di inizio moratoria, il consumo di carne di balena era limitato a meno dell'1 per cento della popolazione nipponica. Una nicchietta piccola piccola di mercato. Attualmente, in Giappone sono stoccate circa 5mila tonnellate di carne di balena non consumata. Se si togliesse sovrappiù di furia ideologica a questo tema, trovando forme consapevoli e di buon senso di liberalizzazione della caccia dei cetacei a uso alimentare, probabilmente non ci sarebbero neanche le condizioni di mercato per una ripresa in grande stile di quest'attività. Così, invece, sull'altare di un ambientalismo un po' talebano, vengono massacrate molte più balene.

Alcune link per capirne di più:

Commissione baleniera internazionale (International Whaling Commission)
Caccia alla balena in Giappone (Wikipedia)
Whaling Library
Environmental News Network
Daily Telegraph
Greenpeace Italia
Greenpeace International

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martedì, maggio 30, 2006

Massacro di Haditha, un'altra My Lai...


Della storia se n'è parlato a lungo. Un convoglio militare americano viene attaccato con la solita bomba rudimentale in Iraq. I soldati perdono la testa, sparano contro un taxi, uccidendo quattro studenti universitari disarmati, poi si buttano su due case e annientano due gruppi familiari di civili inermi, senza troppo riguardo per donne, vecchi, bambini.

Sulla vicenda sono state aperte due inchieste in America contro i marines che facevano parte del commando. Molti paragonano questo episodio al massacro del villaggio di My Lai in Vietnam durante la guerra persa dai soldati a stelle e strisce.

Sul massacro di Haditha del 19 novembre scorso le testimonianza sono molte. L'Msnbc e Newsweek ne riportano alcune particolarmente vivide, che non vengono dall'Iraq, ma proprio dai familiari di due marines americani.

I due giovani solfati statunitensi, caporalmaggiore Andrew Wright (20 anni) e caporal maggiore Roel Ryan Briones (21 anni), sono rimasti traumatizzati, secondo quanto raccontano i loro familiari, quando sono stati costretti ad andare a fotografare i corpi delle vittime. I corpi che i due hanno visto, ha raccontato all' Associated Press la madre di Briones, Susie, hanno visto 23 cadaveri.

"E' stato orribile, una scena terribile", ha detto Susie in lacrime nell'intervista ad Ap. La macchina fotografica di Briones è stata sequestrata dagli investigatori della Marina Usa. Anche Frederick Wright, il padre dell'altro marine, ha confermato che il figlio è sotto shock.

Sul massacro di haditha al momento non c'è molta chiarezza. La dinamica descritta sopra è stata prima raccontata da John Murtha, un rappresentante democratico ex marine e decorato di guerra, e poi confermato da testimoni sul luogo. Dapprincipio, i vertici militari avevano affermato che c'erano stati 15 civili iracheni uccisi per una bomba e uno scontro a fuoco con otto ribelli morti e un marine ucciso. Invece, secondo altre testimonianze, che il marine sia morto per la bomba e poi i suoi compagni hanno perso la testa e fatto un massacro di civili.

Il generale Peter Pace, portavoce dello Stato maggiore della Difesa Usa ha ammeso che i suopi soldati possono non "aver fatto il loro dovere come fa il 99,9 per cento dei marines"". Certo, però, che questo 0,1 per cento di danni ne fa...

Susie Briones, la mamma del marine traumatizzato, ha spiegato che il figlio ha visto tta l'altro una bambinetta uccisa con un colpo alla testa. "Ha dovuto portar via il corpo di quella bimba: aveva la testa scoppiata e le sue cervella si sono sparse sugli anfibi di mio figlio".


Alcune link per saperne di più:

In Italiano

L'Unità
EuroNews
La Repubblica
PeaceReporter

Inglese - English

USAToday
ABC News
New York Times
Sidney Morning Herald
Gulf News (Emirati ArabiUniti)

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lunedì, maggio 29, 2006

L'Iran non ha paura delle sanzioni


In uno dei commenti è stato chiesto a marcopolo un aggiornamento su quanto sta accadendo attorno all'Iran. L'invito è arrivato in un momento opportuno, visto che proprio questa settimana (giovedì) ci sarà la riunione 5+1 ( i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite - Usa, Russia, Gran Bretagnia, Francia e Cina - e la Germania) per discutere il testo di un'eventuale risoluzione unitaria che delinei come procedere nei confronti di Teheran.

Il vertice di giovedì riprenderà i temi di quello condotto nella scorsa settimana a Londra. L'ipotesi è che la bozza di risoluzione, che dovrà poi essere portata al Consiglio di sicurezza, includa l'ipotesi di sanzioni se l'Iran non rispetterà la volontà della comunità internazionale di veder fermate le attività di arricchimento dell'uranio, che potrebbero portare alla costruzione di bombe atomiche. Dall'altro lato, la risoluzione potrebbe comprendenre anche incentivi a rispettare le indicazioni del Consiglio di sicurezza.

Secondo il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni, che oggi era in Turchia, l'Iran è in grado di costruire armi nucleari in pocnhi anni, quindi la comunità internazionale deve intervenire immediatamente con sanzioni economiche.

E Teheran? Il regime degli ayatollah, sempre oggi, s'è fatto sentire. Il messaggio è univoco: l'arricchimento dell'uranio non si ferma. "Tutte le informazioni secondo cui l'Iran rinuncerà ad arricchire l'uranio nel proprio paese per spostare questa attività in Russia non sono accurate", ha detto il portavoce del governo iraniano Gholam Elham. Si va verso il muro contro muro?

Alcune link collegate alla notizia:

Associated Press
France Presse
Reuters
International Herald Tribune
TicinoOnLine (in italiano)
SwissInfo (in italiano)

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martedì, maggio 23, 2006

Referendum Montenegro, la Serbia accetta il verdetto


Oggi una buona notizia. Il presidente serbo Boris Tadic ha riconosciuto i risultati del referendum che in Montenegro ha stabilito la separazione dalla Serbia. Una buona cronaca della questione la troviamo sul sito internet della Bbc.

Non era scontato. I risultati ufficali danno una vittoria dei sì alla separazioned el 55,5 per cento. Perche' il referendum fosse valido, i sì avrebbero dovuto raggiungere il 55 per cento.

"Come voi sapete, noi eravamo favorevoli nel mantenere uno stato comna, ma come democratico e come presidente di un paese democratico, accetto pienamente la decisione della maggioranza dei cittadini del montenegro", ha detto Tadic.

La presa di posizione del presidente è importante e non viene messa in ombra dalle dichiarazioni del primo ministro Vojislav Kostunica, che al momento preferisce attendere i risultati definitivi. Non dimentichiamo che quella regione è quella che ha vissuto il peggiore massacro, in Europa, dalla fine del secondo conflitto mondiale.

La Serbia per anni è stato il paria della politica europea. Una posizione saggia (e ripeto: non scontata) sulla secessione del Montengro è un importante risultao del tanto bistrattato processo d'integrazione europea.

Il Montenegro di Milo Djukanovic ora può guardare con un certo ottimismo nell0inizio di un proceso di avvicinamento all'Europa. "Sono convinto che il Montenegro potrebbe essere il prossimo paese della regione a unirsi all'Ue, dopo Romania, Bulgaria e Croazia, che sono molto più avanti col processo".

Belgrado, invece, ha visto una brutta battuta d'arresto nel processo d'integrazione per la sua scarsa cooperazione nella caccia ai presunti criminali di guerra (Ratko Mladic e Radovan Karadzic in primis). Tuttavia questa posizione dialogante dovrebbe spingere l'Ue a riconsiderare la posizione serba, fermo restando che i Mladic e i Karadzic devono essere consegnati e processari. E che il banco di prova più pesante non sarà tanto il Montenegro, ma il Kosovo.

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lunedì, maggio 22, 2006

La nuova Comiso sarà in Europa dell'Est


Rischiamo di tornare ai vecchi temi di Comiso e degli Euromissili? Parrebbe proprio di sì, vista l'ultima mossa che l'Amministrazione Bush si appresta a fare: installare in Europa intercettori anti-missile per integrare lo scudo di difesa missilistica in chiave anti-iraniana.

La notizia è stata diffusa oggi dal New York Times. Washington ha proposto a due paesi dell'Europa centrorientale, la Polonia e la Repubblica ceca, di dislocare 10 intercettori antimissile in una base entro il 2011. Gli americani pensano di porre gli intercettori in una posizione il più vicina possibile alla traiettoria che percorrerebbero eventuali missili di lunga gittata iraniani, se lanciati contro l'Europa e, lungo la rotta polare, contro gli Stati Uniti.

La decisione sul sito europeo dovrebbe essere presa entro l'estate. Nell'ambito di questo progetto c'è anche il rafforzamento del complesso radar nella base britannica di Fylindales e nella base Usa Thule in Groenlandia.

Cosa sono gli intercettori antimissile? Si tratta di razzi su cui sono montati veicoli esplosivi da 57,8 kg progettati per cacciare e colpire, esplodendo, missili nemici. Il sistema, ancora in fase di test, è già presente a Fort Greely, in Alaska, con nove intercettori, e alla Vandenberg Air Force Base in California. Ma entrambi questi siti sono studiati per eventuali attacchi dalla Corea del Nord, non dall'Iran.

L'idea degli americani pone problemi non da poco. Vediamone alcuni:


  1. Problema economico. Il progetto nasce dalla vecchia idea reaganiana dello "Scudo Stellare" che tanti soldi ha succhiato al bilancio pubblico americano a favore della grande industria bellica. Il Pentagono, per il nuovo sito europeo, ha già chiesto 56 milioni di dollari al Congresso. Il Comitato ha detto per il momento no a questo finanziamento che sarebbe solo la prima tranche di una spesa dio 1,6 miliardi di dollari. Bisogna tener presente che per lo scudo missilistico nel 2007 il Pentagono chiede 9,3 miliardi di dollari. Che non sono affatto poco.
  2. La questione economica è collegata a quella dell'efficacia. Sono molti gli osservatori che criticano con forza il progetto alla luce dei magri risultati dei test condotti recentemente. "Sono quattro anni che non hanno successo nei test d'intercettazione", lamenta Philip Coyle, ex capo dell'Ufficio valutazione dei test del Pentagono. La Difesa Usa, dal canto suo, si difende con la voce del tenente generale Henry A. Obering III, capo dell'Agenzia missilistica: i fallimenti non sono stati tali da mettere in soffitta il progetto.
  3. Ma davvero serve una difesa missilistica dall'Iran? Partiamo da un assunto: Teheran al momento non è in possesso di missili intercontinentali. Ammesso che il programma nucleare bellico iraniano sia sul punto di produrre una bomba atomica (ma per lo più si pensa che è a quattro cinque anni) e ammesso che inizi a sviluppare un progetto per un lancio spaziale ora, ci vorrebbe oltre un decennio per avere il know-how per minacciare gli Usa. Dalla parte della Difesa Usa, tuttavia, si sottolinea che i missili Scud in possesso di Teheran, lanciati nella guerra contro l'Iraq, erano basati sulla tecnologia nordcoreana dei missili Nodong. Anche il missile Shahab-3 è basato sul progetto del nordcoreano Nodong e può colpire Israele e Turchia. Ora, dal momento che i nordcoreani hanno velocizzato la loro ricerca (missili Taepodong 1 e Taepodong 2), non è detto che dalla sinergia di questi due componenti del cosiddetto "Asse del Male" non esca qualcosa di più potente. Certo: oltre alla tecnologia per fare i missili, poi serve quella per miniaturizzare le bombe atomiche che poi devono andare su testate nucleari. E questa tecnologia, a quanto se ne sa, Pyongyang non ce l'ha.
  4. L'ultima variabile si chiama Russia. Da tempo Mosca accusa gli Stati Uniti di star cercando di rendere suoi avamposti avanzati gli ex paesi del Blocco di Varsavia. La cooperazione militare tra Usa e paesi dell'Europa orientale è sempre più stretta. La forte partecipazione della Polonia alla coalizione in Iraq, l'utilizzo di Ungheria, Polonia e Repubblica ceca nella preparazione alla guerra in Iraq come paesi addestratori degli oppositori di Saddam, l'utilizzo di basi in Polonia e Romania come prigioni per i sospetti jihadisti (ma questo il Nyt non lo scrive), ne sono una prova ulteriore. E' chiaro che tutto ciò a Mosca non piace, per quanto gli americani cerchino di rassicurarli. Il ministro della Difesa russa Sergei Ivanov è stato chiaro: la dislocazione del sistema antimissile in Polonia avrebbe "un impatto negativo su tutto il sistema di sicurezza euro-atlantico". E il capo di Stato maggiore russo generale Yuri Baluyevsky non è stato più leggero, rispondendo a una domanda a dicembre del quotidiano Gazeta Wyborcza, ha detto: "Andate avanti e costruite questo scudo. Dovete pensarci voi. Io non prevedo un conflitto nucleare tra la Russia e l'Occidente. Non abbiamo un progetto del genere. Tuttavia, è comprensibile che i paesi che entrano a far parte di questo scudo aumentano il loro rischio".

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sabato, maggio 20, 2006

Al Qaida, il nuovo capo è il mullah Omar?


Cosa si muove dentro al Qaida? Uno squarcio di luce lo dà ancora una volta Syed Saleem Shahzad, il giornalista di Asia Times che sta facendo un gran lavoro per spiegare quel che sta accadendo nella zona grigia di confine tra Afghanistan e Pakistan.

Syed afferma, nel suo ultimo articolo pubblicato, che Osama Bin Laden sarebbe ormai il passato di al Qaida. Non che sia morto, semplicemente ha finito i denari. Pur mantenendo la sua potenza evocativa nel mondo islamico, lo sceicco avrebbe ormai lasciato la palla al capo dei talebani, il mullah Omar.

Questo - spiega il giornalista pachistano - implica il fatto che al Qaida (tuttora "molto attiva sul terreno") ha cambiato la sua natura globale e si è inserita all'interno dell'attività jihadiste non più in una posizione sovraordinata. Non è più ormai ne' il banca di finanziamento, la Goldman Sachs del terrore, ne' il brand terroristico da appiccicare sui colpi jihadisti, se non per l'immaginazione dei nostri media.

Il motore dell'organizzazione, che come mission mantiene quella di promuovere la jihad gloobale "dal Khorasan a Gerusalemme", è il dottor Ayman al Zawahiri, mentre Osama resta sempre più defilato avendo perso negli anni la sua principale arma: i soldi.

Syed racconta, avendolo saputo dalle sue fonti, anche di una visita da parte di tre emissari di Abu Musab al Zarqawi, il capo di al Qaida in Iraq, ad al Zawahiri e Bin Laden, che sarebbero nell'area tribale del Waziristan settentrionale, non controllata da Islamabad ma ormai di fatto nelle mani dei talebani.

Zawahiri avrebbe mandato a dire al giovane giordano che è ora di smetterla con gli attacchi contro gli sciiti, visto che i fratelli islamici non devono attaccare gli altri fratelli islamici, anche se "tafkiri" (cioè non wahhabiti). Per il vertice qaedista sciiti e sunniti devono fare fronte comune contro i veri infedeli: le forze straniere guidate dagli statunitensi.

A giudicare dalle notizie che arrivano oggi da Baghdad (attentati contro gli sciiti a Sadr City) questo invito non è stato raccolto. O non è arrivato al giordano.

Alcune link dalla Blogosphere per saperne di più

http://edstrong.blog-city.com/power_shift_at_the_top_of_alqaeda.htm
http://intellibriefs.blogspot.com/2006/05/mulla-dadullah-international-terrorism.html
http://www.newshounds.us/2006/05/04/mullah_omar_oh_where_could_he_be_does_the_president_even_care.php http://www.jihadwatch.org/archives/011289.php
http://embedded.blogosfere.it/2006/05/il_mullah_omar_.html
http://www.inthebullpen.com/?p=4424
http://intelligence-summit.blogspot.com/2006/05/new-commander-key-to-taliban-spring.html


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venerdì, maggio 19, 2006

Prodi riconosce: nel mondo siam diventati piccoli...


Nella sua replica di oggi al Senato, precedente al voto di fiducia, il presidente del consiglio Romano Prodi ha detto alcune parole importanti sulla nostra politica estera. "Dobbiamo riflettere sul perche' l'Italia abbia perduto il suo ruolo internazionale di media potenza, nonostante i suoi sacrifici e i suoi impegni internazionali", ha detto il premier. "Vedo - ha aggiunto - l'Italia sostanialmente esclusa dal delicato ruolo di arbitraggio con l'Iran, paese con cui massimamente abbiamo interessi economici. Siamo stati eclusi dalla responsabilità della gestione di questo problema, ed è stata inclusa la Germania. Dobbiamo riflettere su come è stato possibile".

Assolutamente corretto. Marcopolo, nel suo piccolo, ha puntualizzato più volte proprio questo aspetto. L'esclusione dell'Italia dalle trattative sull'Iran, che coinvolgono i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania sono un chiaro schiaffo all'Italia che, oltre a essere il primo partner commerciale di Teheran, oltre a essere stato un alleato fin troppo fedele degli Usa, pur avendo pagato nelle missioni internazionali militari un grave tributo di sangue, si ritrova esclusa da ogni discorso internazionale anche in chiave di riforma dell'organo esecutivo dell'Onu.

Ricordiamo che per anni la nostra diplomazia è riuscita a bloccare il piano di Giappone e Germania (solo recentemente raggiunti da India e Brasile per formare i cosiddetti G4) di essere cooptati nel Consiglio tenendo fuori proprio l'Italia e, di fatto, ridimensionandone enormemente il ruolo. Saremmo, per intenderci, l'unico grande paese dell'Ue e l'unico dei tre paesi sconfitti nella seconda guerra mondiale a essere lasciati fuori. Ricordiamo che i cinque membri del Consiglio di sicurezza sono proprio i paesi vincitori del secondo conflitto mondiale.

Questo problema, completamente ignorato dal precedente governo e dal suo ministro degli esteri Gianfranco Fini, sarà sicuramente sul tavolo del nuovo titolare della Farnesina Massimo D'Alema. Speriamo che un ex comunista riesca a far rispettare gli interessi nazionali e l'italianità un po' più di un ex fascista.

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giovedì, maggio 18, 2006

Afghanistan, offensiva di primavera dei talebani


La cifra ufficiale che forniscono le autorità afghane fa accapponare la pelle: 104 morti solo nelle ultime 24 ore. Una giornata di violenze e attacchi ha interessato l'Afghanistan, ennesima puntata di una guerra che ormai dura da poco meno di cinque anni.

Cosa sta succedendo? Molto semplice: è iniziata la "campagna di primavera" dei talebani. Che sarebbe successo era ovvio, ce n'erano tutti i segnali. Anche noi italiani, con un attacco a una pattuglia a Kabul in cui sono morti due soldati, avevamo rilevato questi segnali.

Soprattutto lo sapeva il presidente afgano Hamid Karzai, che più volte ha fatto appello ai talebani perche' rinuncino agli attacchi e si uniscasno agli sforzi per ricostruire il paese. Karzai ha anche definito, in occasine del 14mo anniversario della vittoria dei mujaheddin sulle truppe d'occupazione sovietiche, i talebani vittime delle strumentalizzazioni di stranieri (Al Qaida?) e ha ricordato che l'Islam vieta di uccidere i civili innocenti. Non è servito...

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martedì, maggio 16, 2006

La variante cinese dello scandalo Clearstream


Qualcuno ricorda Zhu Rongji? Nessuno? Strano, perche' fino a due anni fa questo signore era il numero due del paese più popoloso del mondo e più lanciato sulla via che lo porterà a essere superpotenza globale: la Cina. Zhu tra il 1998 e il 2003 è stato il primo ministro cinese. Poi è scomparso nel nulla.

A riportare il suo nome sulle cronache mondiali è stato lo scandalo francese Clearstream. Avete presente? Quel verminaio che a Parigi sta mettendo in crisi il primo ministro Villepin, l'aspirante presidente Nicolas Sarkozy, fino a lambire l'Eliseo. Che c'entra Zhu Rongji con Clearstream? Vediamo. Cerchiamo di ripercorrere la sua storia utilizzando fonti che vengono da pubblicazioni legate proprio all'intelligence transalpina.

Secondo alcune fonti Zhu avrebbe deciso nel 2003 di farsi da parte e ritirarsi a vita privata. Altri, molto più crudamente, affermano che è agli arresti domiciliari. Quale che sia la verità, molti hanno la certezza che la sua caduta sia collegata con un'inchiesta per corruzione.

La vicenda dell'ex premier si lega a doppio filo con quella di Huang Ju, vice presidente e numero sei nel Politburo del Partito comunista cinese. Huang è morto due settimane fa per un cancro, anche se la sua morte non è ancora ufficialmente confermata. I tempi di Pechino, si sa, sono dilatati. In ogni caso, Huang era sotto inchiesta per corruzione.

Sia Zhu che Huang sono stati in passato sindaci di Shanghai. La stessa carica è stata ricoperta dal precedente leader cinese, Jiang Zemin, che ancora oggi continua a contendere al presidente Hu Jintao il controllo di alcuni glangli sensibili dell'apparato di sicurezza cinese. Il braccio operativo di Jiang in questo confronto è Zeng Qinghong, anche lui proveniente da Shanghai. Zeng è vicepresidente e, soprattutto, capo dei servizi di sicurezza. Questi ha anche legami familiari col ministro per la sicurezza pubblica Zhou Yongkang.

Insomma, tra tutti questi vasi di ferro, l'unico vaso di coccio del clan di Shanghai, l'unico vulnerabile, è Zhu. Così i nemici del clan hanno approfittato del cote' "taiwanese" del caso Clearstream per attaccare il povero ex premier. Lo hanno accusato di aver intascato tangenti con lo scopo di garantire la "neutralità" di Pechino sull'acquisto di sei fregate della società francese Thomson CSF (oggi Thales) da parte di Taiwan nel 1991.

In questo Parigi ha aiutato. Investigatori cinesi e transalpini, infatti, concordano nell'idea che la corruzione è stata realizzata durante la visita di Zhu a Parigi il 16 aprile 1991. Nella rete è finita poi anche la moglie di Zhu, Lao An.

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mercoledì, maggio 10, 2006

Niente sesso, siamo...indonesiani


L'interpretazione più oscurantrista dell'Islam prende sempre più piede anche in paesi in cui la tradizione musulmana ha sempre avuto una connotazione moderata. E' il caso dell'Indonesia, dove tradizionalmente non è che la nudità abbia mai provocato scandali particolari. Anzi, era parte della vita quotidiana. E, invece, in queste settimane il paese potrebbe votare una legge sulla "pornografia" e sui cosiddetti "atteggiamenti indecenti" estremamente rigida.

A proporla è stata una coalizione di partiti islamici, conservatori, oltre a gruppi di religiosi e di attivisti islamici. Lo scopo di questi gruppi, e quando mai, è quello di "proteggere le giovani generazioni" dalla montante pornografia.

Ma è pornografia due ragazzi, o anche marito e moglie, che si baciano per strada? E' pornografia una minigonna? E' pornografia la rivista Playboy, che in Indonesia presenta meno nudi di qualsiasi altro giornale normalmente in vendita?

Sì per i censori devoti. Ed è pornografia anche per le minoranze presenti in Indonesia vestire i loro costumi tradizionali, fare le loro bellissime danze rituali? Le proteste da parte di questi gruppi etnici, delle donne, degli intellettuali, di gruppi giovanili non smuove le certezze di chi è convinto di guadagnarsi il paradiso impestando la vita agli altri.

Dove questi Savonarola col turbante non arrivano con la legge, menano le mani. Per esempio, solo il mese scorso Playboy ha lanciato la sua edizione indonesiana. Ebbene, di fronte agli inattivi poliziotti, la sua sede è già stata fatta oggetto di lanci di sassi da parte dei cosiddetto Fronte dei difensori dell'Islam e i suoi redattori intimiditi. E, come se non bastasse, la polizia ha fatto irruzione nella redazione e ha interrogato i giornalisti. La pubblicazione di Playboy è stata interrotta.

Migliaia di persone - spiega il settimanale Economist - sono scese in piazza, per chiedere di bloccare il provvedimento, ma altrettante hanno manifestato a suo favore. Sono tre i team di esperti che stanno studiando la legge e i consigli arrivati da tutte le parti. La speranza è che questi esperti modifichino la norma in modo da preservare un'interpretazione non fanatica dell'Islam tipica dell'Indonesia.

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lunedì, maggio 08, 2006

Liberia, la vergogna di "Sex-for-Aid"


Forse è una delle cose più sporche che stanno accadendo in giro per il mondo in all'alba di questo ipocrita XXI secolo. A denunciarlo è stata l'agenzia umanitaria Save the Children ed è stata rilanciata dalla Bbc: peacekeepers e operatori umanitari in Liberia stuprano bambine e bambini in cambio di aiuti.

Il fenomeno è noto da tempo. E infatti Save the Children non fa una rivelazione. Peggio: denuncia che, nonostante le prese di posizione internazionali che da tempo si succedono, il fenomeno vergognoso si sta allargando piuttosto che spegnersi.

Le Nazioni Unite in Liberia hanno annunciato un'inchiesta. Ma intanto gli abusi aumentano e gli appetiti malati di questi personaggi sono titillati dal fatto che tante famiglie, sfollate per la guerra civile stanno tornando nei loro villaggi da ricostruire e vivono una terribile povertà.

Save the Children, riferisce la Bbc, ha interrogato oltre 300 persone nei campi profughi, e i risultati sono stati sconcertanti. Praticamente tutti gli interpellati hanno riferito che oltre metà delle ragazzine che vivono nei campi sono oggetto d'abusi sessuali. Gli appetiti di questi operatori "umanitari" sono particolarmente appuntati su bambine e ragazze tra gli 8 e i 19 anni.

Oltre agli operatori umanitari stranieri, ad approfittare della loro posizione sarebero anche funzionari del governo e addirittura gli educatori. Ci sono maestri che pretendono prestazioni sessuali al posto della retta della scuola.

"Tutto ciò non può continuare, bisogna affrontarlo", ha commentato alla Bbc Jasmine Whitbread di Save the Children UK. "Gli uomini - ha aggiunto - che si approfittano della loro posizione di potere per infierire su bambini indifesi devono essere denunciati e cacciati".

Greg Barrow del Programma alimentare mondiale (Pam, Wfp) assicura che le accuse saranno valutate "con la massima serietà" e Jordan Ryan, coordinatore umanitario Onu in Liberia, ha affermato che l'inchiesta su queste accuse sarà "una chiara priorità".

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domenica, maggio 07, 2006

Ipocrisia italiana in Iraq: una guerra che non è guerra


Certo colpisce. Leggere su L'Espresso di questa settimana l'intervento del generale Fabio Mini (nella seconda foto), ex comandante della missione Nato in Kosovo (Kfor) e una delle menti più lucide delle nostre Forze Armate, che scrive riferendosi ai commenti politici dopo l'uccisione dei nostri soldati a Nassiriya: "Aridi e sterili, dai quali non nasce nessuna vera presa di coscienza e soprattutto nessuno scrupolo professionale e morale. C'è il rito dell'esecrazione, della condanna dell'atto che per definizione è sempre terroristico, efferato, vile e barbaro. E non può essere altrimenti perche' noi agiamo nel mito e con il rito della pce: non facciamo la guerra, non andiamo nei luoghi di guerra, non offendiamo nessuno e portiamo soltanto pace, libertà, democrazia all'insegna della bontà d'animo e della nostra superore civiltà". Ma il punto cruciale al quale Mini vuole arrivare è quello che segue: "Questo rito rifiuta le ragioni degli altri, nega lo status di nemico a chi ci offende e nega perfino quel che il diritto internazionale stabilisce: se si è in casa d'altri con le armi e si pretende di controllare l'ordine e la sicurezza si è occupanti a prescindere dai motivi o dalle intenzioni. Se si impiegano i contingenti armati e non si garantisce ne' ordine ne' sicurezza non si è nulla. Non esiste uno status internazionale di liberatori o di samaritani armati".

Le avesse pronunciate un qualsiasi Paolo Cento, un Marco Ferrando, un Caruso, si sarebbe scatenata una canèa di commenti politici di gente che non perde occasione di ripetere agli altri di vergognarsi ecc. ecc. Nel caso dell'autore de "La guerra oltre la guerra", di uno dei generali italiani più conosciuti a livello internazionale, cosa fa la nostra politica omologata e cieca? Tace, fa finta di niente.

Marcopolo invece vuole prendere spunto da questo ragionamento di Mini, per fare alcune considerazioni. Ai morti di Nassiriya non è mai stata assegnata la medaglia d'oro al valor militare, che invece è stata assegnata al valor civile al bodyguard Fabrizio Quattrocchi ucciso dai rapitori in Iraq. Il motivo è semplice: quell'onorificenza i militari la potrebbero avere solo a costo di un'ammissione da parte italiana del fatto che stanno combattendo una guerra. Ma, se si fa questo passo, il governo si pone automaticamente al di fuori della Costituzione. Così, quelli che sono morti nell'esercizio generoso del loro dovere in Iraq non possono essere considerati "eroi". Attenzione, non è marcopolo che lo dice. Chi scrive sa che lì si sta combattendo una guerra vera e propria quindi è convinto che i caduti a Nassiriya sono proprio eroi. Ma, provate a notare un attimo alla questione terminologica: nelle dichiarazioni dei politici i "nostri ragazzi" morti a Nassiriya sono "martiri" per chi li vuole esaltare, "vittime" per chi vuole considerarli intrappolati in un meccanismo più grande di loro.

Entrambe le definizioni umiliano il loro status di soldati. Quella di martire dà un'idea un po' religiosa della loro missione, quella di vittima li considera quasi dei civili. No, la definizione più giusta per loro è eroi. Ma la nostra politica è pudica rispetto a questa definizione, perche' quel termine è troppo collegato al concetto di guerra. E quella in Iraq non è guerra, anche se ne ha tutte le caratteristiche, per l'ipocrisia di stato.

"La presenza militare straniera su un territorio soggetto a una sovranità locale non può essere lasciata nel vuoto istituzionale o alla merce' delle pulsioni politiche di questo o quel signorotto", continua a spiegare il generale Mini. "La presenza militare istituzionale - specifica il comandante -, cioè quella espressa dagli Stati e non dalle compagnie di mercenari, ha una valenza particolare proprio perche' influisce sulla sovranità dello Stato, sulla sua sicurezza e sull'indipendenza delle sue legittime e legali istituzioni. Rispetto alla sovranità e sicurezza sono i requisiti essenziali e qualsiasi processo di pace, ordine e ricostruzione. Perciò il diritto internazionale si sforza di contemplare i casi possibili d'intervento armato su territori esteri e di fissarne i limiti di legittimità, stabilendo che la presenza di truppe straniere non sottrae mai la sovranità dello Stato operante".

Capita l'antifona? Beh, se non l'abbiamo capita, continuerei con quello che dice Mini: "Tale presenza non può essere trattata in maniera ambigua e indefinita (ndr: come è dal governo italiano) neppure se si tratta di una parteicazione 'tecnica' di cooperazione o di un atto di solidarietà. Senza uno status ben definito e senza l'accettazione coale e istituzionale del paese ospitante, la presenza militare, specie se protratta nel tempo, rischia di sconfinare nella prevaricazione e nella limitazione della sovranità altrui, rendendo legittima qualsiasi resistenza anche armata".

Ecco, marcopolo penserà a queste parole quando sentirà di nuovo i nostri politici sproloquiare frasi del tipo di questa: "L'attentato assassino che ha stroncato barbaramente la vita dei nostri soldati a Nassiriya è un attacco alla civiltà. Siamo vicini alle famiglie di questi nuovi martiri della libertà e alle Forze Armate. Anche per onorare il loro sacrificio, che ci addolora profondamente, è necessario, ora più che mai, proseguire la nostra missione di pace in Iraq". La dichiarazione risale al 27 aprile 2006. L'ha detto uno di quelli che ha mandato i nostri soldati in Iraq senza un preciso quadro operativo, che ne ha fatto dei "martiri" in una guerra che non è guerra.

P.S.: marcopolo apprende che è morto oggi anche l'unico superstite dell'attentato della settimana scorsa a Nassiriya, il maresciallo dei Carabinieri Enrico Frassanito.

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venerdì, maggio 05, 2006

Attacco a italiani: cosa succede in Afghanistan?


Hanno colpito ancora. Due soldati italiani sono rimasti uccisi a bordo di un blindato Puma in Afghanistan, lungo una strada a sud di Kabul nota per essere particolarmente pericolosa. Mentre marcopolo scrive queste brevi considerazioni, gli scorre davanti il solito patetico flusso di dichiarazioni stereotipate da parte di politici, politicanti e mezzetacche che, con accenti un po' necrofili, cercano di trarre vantaggio dalle disgrazie nazionali.

E' amaro dover registrare queste altre vittime. Proprio per ricordarle degnamente, marcopolo non può fare altro che il suo lavoro: ragionare su quel che sta accadendo in Afghanistan.

Ricordate? Ne abbiamo parlato a marzo. Oggi cerchiamo di fare un attimo il punto della situazione, di capire qual è il quadro in cui si incastona questo attacco. Già si fanno ipotesi. Una di queste, che sarebbe avallata anche da un rapporto del Sismi di cui hanno parlato diversi media, vorrebbe l'attacco afgano come l'ennesimo colpo all'Italia in un momento interlocutorio dal punto di vista politico, di passaggio di consegne da una maggioranza all'altra, per cercare di far ritirare le nostre forze dai diversi teatri. Certo, il Sismi è una voce che spesso si leva per incidere sulle nostre politiche, piuttosto che per informare i policymaker, secondo quanto affermano Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo nel loro Il mercato della paura.

Il quadro della situazione può dare tuttavia alcune risposte non necessariamente convergenti all'ipotesi dell'atacco mirato. Intanto poniamo un dubbio: chi l'ha detto che l'obiettivo fossero gli italiani e non semplicemente le forze della Coalizione, che non necessariamente agli occhi di un afgano o un pachistano sono così facilmente distinguibili.

Nel mondo dei juhadisti - scrive in un articolo apparso oggi su Asia Times un giornalista pachistano con ottimi agganci, Syed Saleem Shahzad - sono convinti che entro la fine dell'anno il mullah Omar (nella foto di mezzo), il leader dei talebani, sarà di nuovo al potere a Kabul. Un'idea probabilmente prpagandistica, ma è innegabile che i jihadisti soo di nuovo all'attacco.

Al Qaeda, in particolare, dopo quasi cinque anni in ritirata, sembra aver ritrovato un certo attivismo. Secondo Shahzad la leadership del gruppo avrebbe avrebbe attivato i "volontari" kamikaze pachistani per andare a colpire dentro e fuori dall'Afghanistan. I recenti messaggi del numero due del brand terrorista Ayman al Zawahiri e dello stesso Osama Bin Laden sembrano essere una specie di chiamata a raccolta. E' come se volessero dire che al Qaeda è ancora viva e attiva.

Ma la chiave di questo nuovo attivismo terrorista va cercata in Pakistan più ancora che in Afghanistan. Non è un caso che gli aspiranti kamikaze arrestati nel fallito attentato di Kandahar, poco tempo fa, fossero provenienti da Karachi via Quetta: si tratta di due città dove ci sono sperimentate reti jihadiste e dove sono stati arrestati importanti esponenti di al Qaeda che lì erano di casa.

Il "safe heaven" di talebani e al Qaeda al momento sembra essere il Waziristan settentrionale, in territorio pachistano, che ormai è conosciuto come "Stato islamico del Waziristan". Da lì partono incursioni e attacchi contro il debole potere afgano, nella cornice dell'ormai classica offensiva di primavera, che quest'anno sembra particolarmente incisiva. Ma si sviluppa anche una strategia d'indebolimento del generale-presidente Pervez Musharraf in Pakistan, indicato da al Zawahiri come un traditore corrotto. Al Qaeda e i talebani, insomma, non hanno affatto perso la capacità operativa di sviluppare una strategia complessa, militare e politica, in grado di mettere in difficoltà gli americani che, a questo punto, potrebbero agire col pugno di ferro, correndo il rischio di fare molte vittime civili.

Qualcuno dovrebbe chiedersi se, anche nel caso dell'Afghanistan come in quello dell'Iraq, non sia stato troppo precipitoso a decretare una vittoria che al momento ancora non è assicurata.

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giovedì, maggio 04, 2006

La Cina a caccia di...etanolo (e si rivolge al Brasile)


La Cina guarda al Brasile. Ma non per la bellezza delle sue foreste, ne' per il piano del presidente Lula di far calare la povertà, neanche troppo riuscito finora. No, i cinesi si sono accorti del fatto che il Brasile ha risposto alla sfida dell'energia sviluppando un'avanzatissima tecnologia per la produzione di biocacarburanti, in particolare bioetanolo prodotto dalla canna da zucchero.

Pechino, lo sappiamo tutti, col suo 10 per cento di crescita annua del Pil, è assetata d'energia. La sua caccia al petrolio è uno dei fattori d'instabilità che fa schizzare in alto il prezzo del petrolio e, secondo molti osservatori, rende più intensi gli attriti in Medio Oriente. Lo sviluppo incontrollato, inoltre, sta creando alla Cina enormi problemi ambientali. Così, come poteva sfuggire ai leader della Repubblica popolare l'esempio brasiliano?

In effetti, il governo di Brasilia ha da tempo inserito regole per cui gli autoveicoli devono operare con carburanti che contengano almeno il 20 per cento di etanolo e sono moltissime le auto attrezzate con tecnologia "flex" che permette loro di andare anche solo a etanolo. Che poi non è altro che un alcol ottenuto dalla fermentazione dello zucchero. Verrebbe da chiedersi perche' in Italia in questo senso si stia facendo poco o nulla. Ma, si sa, sarebbe una domanda retorica.

Torniamo alla Cina. Secondo quanto ha raccontato Matt Young, un reporter di EyeWorld Magazine, i cinesi hanno già contattato il Brasile perche', oltre ad adottarne la tecnologia, vorrebbero anche importare bioetanolo. Un esperto della Commissione nazionale cinese per lo sviluppo e la riforma, Dehua Liu, si è già recato in Brasile per prendere contatti e presto dovrebbe tornarvi per concludere i primi affari. "Molte compagnie cinesi, il governo centrale e governi locali sono molto interessati all'esperienza brasiliana nell'ultilizzo e nella produzione dell'etanolo", ha spiegato Liu a Young.

Un primo approccio cinese al problema è stato quello di cercare di introdurre i metodi di produzione. E' una soluzione che poteva essere affascinante, tuttavia ha una controindicazione per la Cina. L'enorme popolazione cinese ha bisogno di essere sfamata e la coltura estensiva di canna da zucchero potrebbe mettere a rischio le riserve alimentari per il paese. Così Pechino sta studiando la sostenibilità di avviare importazioni, che vedrebbero Brasilia come partner privilegiato.

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mercoledì, maggio 03, 2006

Onu: Roma dorme, Berlino agisce...


Ma la nostra diplomazia che fa? E va bene che siamo in una fase interlocutoria, in cui il vecchio governo sta sbaraccando e il nuovo ancora non c'è, ma questo non vuol dire che dovremo tenere le brache calate fino all'avvento del nuovo esecutivo. I fatti? Ebbene, ieri si è riunito a Parigi il cosiddetto 5+1 sulla questione nucleare iraniana. Per 5+1 s'intendono i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania.

Bene, dicono gli osservatori: è una buona cosa il fatto che si dialoghi. Un corno! Ci rendiamo conto che i tedeschi stanno agendo come se fossero già membri permanenti del consiglio? Come se lo schema d'allargamento che volevano tedeschi e giapponesi, a cui poi si sono uniti India e Brasile, non fosse stati ricacciato nelle nebbie della trattativa? Da venti anni l'Italia per impedire che il consiglio si allarghi tout court a Germania e Giappone, ricacciando la sola Italia in un ruolo marginale nel Palazzo di Vetro. E ora che, giorno per giorno, i tedeschi stanno rendendo questa ipotesi un fatto compiuto, la nostra diplomazia, il nostro ministro degli Esteri, che comunque è in carica finche' non se ne fa uno nuovo, dorme come ha dormito in questi anni.

La Germania contribuisce meno di noi all'Onu, sia in termini monetari che di uomini impegnati in missioni peacekeeping. La Germania è sicuramente meno rilevante di noi in Iran, paese di cui siamo il primo o secondo partner commerciale e con cui abbiamo una lunga storia di relazioni diplomatiche. Ma, intanto, Berlino si mette al centro della trattativa più delicata dell'anno e Roma dorme...

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martedì, maggio 02, 2006

Quando di libertà di stampa si muore...


Il 2005 è stato un anno nero per i giornalisti. E non parlo della classifica di Fredoom House, che anche per il 2005 ha inserito nella speciale classifca della libertà di stampa l'Italia al 79mo posto assieme al Botswana, ma per un motivo ancora più importante: è stato il più sanguinoso degli ultimi 10 anni per chi fa questo mestiere delicato e difficile.

Lo dice Reporters sans frontières nel suo usuale rapporto: nel 2005 sono stati uccisi 63 giornalisti e 5 collaboratori dei media, ne sono stati minacciati o aggrediti 1.300. E le cose non sembrano migliorare col 2006. Dall'inizio dell'anno sono stati ammazzati 16 giornalisti e 6 collaboratori. Nelle prigioni delle peggiori tirannie del globo (dalla Cina a Cuba, dall'Eritrea all'Etiopia, dall'Iran alla Birmania) sono rinchiusi 120 reporter e 56 cyberdissidenti.

La situazione peggiore la troviamo in Africa dove, scrive il rapporto, "l'impunità (per i crimini contro i giornalisti) non è una deprecabile eccezione, ma la regola". Casi esemplari sono quelli degli assassini di Norbert Zongo in Burkina Faso e di Deyda Hydara in Gambia. La repressione della libertà di stampa è normale in Eritrea, Repubblica democratica del Congo, Ruanda.

Non se la passano meglio nel continente americano. Sette giornalisti e un collaboratore dei media sono stati uccisi nel 2005. Cuba è il paese più repressivo, ma la situazione non è piacevole neanche in Colombia, Messico, Perù e Haiti. Nella parte settentrionale, invece, se la situazione è migliore, restano tuttavia problemi. Per esempio, dopo l'11 settembre è difficile per i giornalisti proteggere il loro maggiore patrimonio: le fonti. E per proteggerlo rischiano la galera.

Una situazione abbastanza simile esiste nell'Unione Europea. In Italia, Francia, Belgio e Polonia è capitato a diversi giornalisti di essere soggetti e perquisizioni e convocazioni con lo scopo di intimidirli e rivelare le fonti. Ma ci sono anche luci: molti paesi dell'Europa orientale entrati da poco nell'Ue si stanno dimostrando in pieno progresso: si tratta dei paesi baltici, della Slovacchia, della Slovenia, dell'Ungheria, della Repubblica ceca. E, in Europa, restano degli esempi brillanti, come la Finlandia, considerato il paese con le migliori condizioni per i giornalisti.

Brutta la situazione in Asia. Dal Nepal del re Gyanendra, alla Corea del Nord di Kim Jong Il, alla Cina di Hu Jintao, fare il mestiere di giornalista libero è assolutamente impossibile. Lo stesso vale per diverse ex repubbliche sovietiche, come l'Uzbekistan, la Bielorussia, l'Azerbaijan ecc. Nelle Filippine, con 7 giornalisti assassinati si raggiunge una performance negativa seconda solo a quella dell'Iraq. La Cina, poi, con le sue limitazioni all'accesso alle informazioni su internet, si conferma lo stato più "repressivo" rispetto alla libertà di coscienza.

Infine, il Medio Oriente. E' la regione che ha avuto più giornalisti morti: 27 di cui 24 nel solo Iraq. E poi i rapimenti, come quello di Florence Aubenas. Le prigioni, le torture, la chiusura dei giornali come in Iran. Insomma, davvero è "sempre meglio che lavorare"?

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lunedì, maggio 01, 2006

Romano Prodi con la "barba finta"


Quali gli apparati dello Stato più "sensibili", soprattutto alla luce degli eventi degli ultimi anni? Lo sanno tutti, si tratta dei servizi segreti. Il ruolo che i servizi italiani hanno avuto nella costruzione delle motivazioni che hanno portato alla guerra in Iraq è ormai accertato, anche se ufficialmente contestato. Chi voglia approfondire ha modo di farlo leggendo quel documentatissimo saggio di Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo, due reporter di Repubblica, recentemente pubblicato da Einaudi, Il Mercato della paura.

Ma cosa intende fare il nuovo governo italiano riguardo ai servizi? Partiamo da un assunto: il vecchio governo guidato da Silvio Berlusconi su questo terreno, come su tanti altri, ha scontato le sue divisioni interne con la paralisi. Il progetto di unificare i due servizi, il Sisde e il Sismi, in un'unica struttura, era un cavallo di battaglia del ministro degli Interni Giuseppe Pisanu, ma era fortemente avversato dal suo collega alla Difesa Antonio Martino. Durante la legislatura, i due si sono comportati un po' come due comari, paralizzando di fatto ogni ipotesi di riforma.

Potrebbe accadere lo stesso con il nuovo governo di centrosinistra? Potrebbe. Intanto, tuttavia, sembra chiaro che Romano Prodi vuole avere, come presidente del consiglio, il controllo politico esclusivo sulle catene di comando delle due agenzie d'intelligence. Inoltre, parrebbe che Prodi voglia gestire anche le relazioni col Copaco, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, i cui poteri potrebbero essere rafforzati.

Potrebbe anche essere creato un nuovo "panel", presieduto dallo stesso Prodi, che si occupi dell'intelligence e che si avvalga di personalità provenienti dai Ministeri degli Esteri, Interni, Difesa e Finanze.

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